venerdì 12 giugno 2009

ENRICO BERLINGUER


editoriale di Liberazione del 11/06/2009

Enrico Berlinguer
di Dino Greco direttore
Probabilmente è nel destino delle persone che hanno lasciato una grande impronta di sé trovare dei cattivi o addirittura pessimi biografi. Capita frequentemente, nelle epoche di decadenza, quando, per incomprensione o per rimozione (che, a ben vedere, sono la stessa cosa), si smarrisce la capacità critica e vi si sostituisce un giudizio sommario, liquidatorio. O, peggio, assai peggio, caricaturale. C’è forse, in questo, una propensione un po’ vigliacca e un po’ infantile, ad attribuire le proprie miserie a chi è venuto prima di noi. Si attribuiscono al passato le responsabilità del presente e agli errori altrui l’incapacità di dominare i problemi che tocca a noi risolvere. Capita così che i mediocri e sino a ieri acritici adulatori si trasformino in spietati detrattori. E’ quello che è capitato ad Enrico Berlinguer, da un lato, e a molti dei suoi assai modesti epigoni, dall’altro. A venticinque anni dalla sua morte su quel palco di Padova, la sua breve agonia appare, alla luce del tempo trascorso, come la rappresentazione dell’agonia di una nazione, la conclusione drammatica di un ciclo.
Chi visse quelle giornate e la commozione corale che le accompagnò, ne sono certo, porta dentro di sé il ricordo di uno smarrimento, della percezione istintiva, prerazionale, di una cesura, di un qualcosa di irrimediabile che si perdeva. E questo identico vissuto accomunava tutti, tanto le persone più semplici quanto quelle intellettualmente più robuste. Sia chiaro, questa breve escursione nel ricordo personale non è mossa da alcun intento agiografico, che sarebbe altrettanto letale dell’oblio. E’, semmai, una valorizzazione dei sentimenti, intesi - direbbe Gramsci - non come una manifestazione secondaria dell’intelligenza, ma come la condizione stessa del comprendere. Se Berlinguer entrò in così profonda risonanza con masse enormi di persone di ogni ceto sociale non è certo per una malintesa inclinazione moralistica, per un’astratta rivendicazione della diversità comunista. In lui si colse quel che vi era di più autentico: l’idea della politica - e della rivoluzione - come mutamento profondo dei rapporti sociali, incardinato su una grande riforma intellettuale e morale, come espansione molecolare della democrazia e dei diritti, individuali e collettivi. Di qui l’insistenza ossessiva che caratterizzò gli ultimi anni della sua vita perché si impegnasse una lotta a fondo contro l’occupazione del potere da parte dei partiti, contro la corruzione, la contaminazione affaristica della politica e la penetrazione, nelle istituzioni, della cancrena della P2.
E’ davvero paradossale, ma rivelatore, che l’acutezza di quella intuizione sia scarsamente avvertita proprio oggi, nella fase storica in cui quel processo degenerativo, colpevolmente ignorato, è penetrato sin nel midollo spinale della politica, trasformando in senso plebiscitario il rapporto fra partiti e popolo, immiserendo l’idea di rappresentanza e la stessa percezione che di sé e della democrazia hanno i cittadini.
Ci sono, fra gli altri, due momenti cruciali nella vita e nella battaglia politica di Berlinguer che paiono a me di straordinaria importanza, non solo perché delineano il profilo culturale e il carattere dell’uomo, ma perché racchiudono un nocciolo di verità e di attualità che ha moltissimo da dire al tempo presente. Siamo nel 1976 e il Paese si sta avvitando in una crisi economica, sociale e finanziaria gravissima. I pilastri su cui si era retto il modello di sviluppo precedente sono tutti entrati in crisi: il regime di bassi salari, messo in crisi dalle poderose lotte operaie a partire dal ’69, il basso costo delle materie prime, schizzato verso l’alto come risposta dei paesi produttori di petrolio alla decisione di Nixon di sospendere la convertibilità del dollaro in oro, che aveva provocato un vero e proprio sconvolgimento nel sistema monetario e valutario internazionale. In Italia, l’inflazione galoppava e si saldava alla recessione, con un contraccolpo pesantissimo sull’occupazione.
E’ di fronte a questo scenario che Berlinguer, con un Pci che ha raggiunto, elettoralmente e politicamente, l’apice della propria forza e prestigio, pone a tema la questione che sia giunto il momento di non limitare il ruolo dei comunisti ad una battaglia puramente redistributiva, cioè difensiva, ma di intervenire su un terreno sul quale mai si era fino allora spinto il movimento operaio. Così, nel convegno degli intellettuali del gennaio 1977, al teatro Eliseo di Roma, e poi nella conferenza operaia di Milano dello stesso mese, Berlinguer dirà: «Gli operai, i lavoratori non vogliono cambiare solo, né tanto, il tipo della loro automobile o il modello del loro televisore: il significato politico ideale, il senso umano profondo della loro vittoriosa “spallata” sindacale è, a intenderlo bene, che essi vogliono cambiare, anche e soprattutto, la qualità dello sviluppo del Paese, la qualità della vita loro e di tutti, le forme del consumare e del produrre».
Berlinguer attacca gli errori enormi compiuti nella politica del suolo, del territorio, dell’ambiente, nel campo della ricerca. La svolta che egli propone «non è un mero strumento di politica economica cui si debba ricorrere per superare una difficoltà temporanea, congiunturale, per potere consentire la ripresa e il ripristino dei vecchi meccanismi economici e sociali». La proposta che egli avanza è rivolta a «contrastare alle radici e a porre le basi del superamento di un sistema che è entrato in una crisi strutturale, i cui caratteri distintivi sono lo spreco e lo sperpero, l’esaltazione dei particolarismi e dell’individualismo più sfrenati, del consumismo più dissennato. [...] La nostra proposta è il contrario di tutto ciò che abbiamo conosciuto e pagato finora».
Non si tratta di un esercizio intellettualistico, ma di «una cosa che non si è mai fatta in Italia, sia per la sostanza che per il metodo». Per mettere in moto una proposta cui dare forma compiuta attraverso una discussione di massa che coinvolge e chiede il contributo dei lavoratori, dei tecnici, dei dirigenti aziendali, delle masse giovanili e delle loro organizzazioni, delle donne e delle loro associazioni. Un cimento che chiami ad un ingaggio diretto le forze che sono o dovrebbero essere creative per definizione, le forze degli intellettuali, della cultura. Per percorrere «vie non ancora esplorate, ed inventare qualcosa di nuovo che sta, però, sotto la pelle della storia, maturo e necessario. E dunque possibile».
Tramontata l’illusione secondo la quale, di per sé, la statalizzazione dei mezzi di produzione e di scambio avrebbe liberato nuove forze produttive e condotto a nuovi rapporti di produzione, Berlinguer introduce una novità di fondo. L’idea che non è uno schieramento di maggioranza che deve impossessarsi del governo e quindi calare la sua politica nella società, ma è la società che esprime le sue forze protagoniste e quindi accede al governo di se medesima. La proposta di “austerità”, formula sfortunata, che nulla tuttavia aveva a che vedere con un «tendenziale livellamento verso l’indigenza», fu invece spacciata per una sorta di pauperismo e - nella versione che prevalse nel sindacato e nella Cgil - come invito ai «sacrifici» e costrizione entro le «compatibilità date dal sistema». Lettura del tutto estranea, anzi opposta, a quel progetto di trasformazione strutturale che era di Berlinguer.
L’illusione (fatale) del segretario del Pci fu che un capovolgimento così grande potesse avere come incubatoio un quadro politico-istituzionale condiviso con la Dc morotea e con una borghesia nazionale che lavorò con il martello pneumatico per indebolire quella prospettiva e per realizzare - a spese dei lavoratori, dei loro diritti, del potere da loro conquistato in un decennio - la più pesante delle ristrutturazioni capitalistiche. Quando tutto ciò fu chiaro, Berlinguer compì la più radicale e sofferta delle autocritiche. E quando, nel settembre del 1980, la Fiat fece recapitare ai sindacati la lettera che annunciava 14mila licenziamenti, Berlinguer - con un gesto mal digerito da metà del suo partito e dalla Cgil - andò davanti ai cancelli della più grande fabbrica d’Italia: a Mirafiori, a Rivalta, al Lingotto, alla Lancia di Chivasso. E disse agli operai «una sola cosa, ma molto importante». Disse che qualunque forma di lotta avesse deciso il sindacato assieme ai lavoratori, avrebbe trovato il sostegno materiale, morale e politico del partito comunista italiano.
L’effetto, fra i lavoratori, fu enorme. Ma non bastò. Come si sa, il sindacato capitolò. E quella sconfitta segnò uno spartiacque con tutta la storia successiva. Che trovò il suo epilogo negativo nel decreto di San Valentino, con cui Craxi, nel 1984, decise il taglio di quattro punti di scala mobile. Non si trattò di una discutibile manovra economica, ma di un atto deliberatamente politico, rivolto a piegare il movimento operaio ed ad isolare il Pci. Quella condotta contro questo «autentico sopruso», che Berlinguer avvertì in tutta la sua gravità, per le conseguenze sociali e per la vulnerazione democratica che portava con sé, fu l’ultima battaglia che egli ingaggiò, fino alla promozione del referendum abrogativo di quel decreto, scelta compiuta nell’ostilità manifesta di parte non irrilevante del suo partito.
Anche in questa vicenda egli affermò una visione straordinariamente moderna del rapporto col sindacato, del quale non condivise la remissività e i cedimenti, anche se condotti nel nome dell’unità. Del sindacato egli accettava pienamente l’autonomia, fuori da ogni primazia del partito e da ogni logica da “cinghia di trasmissione”. Ma, appunto per questo, rivendicava il diritto del partito di pronunciarsi su tutto, senza vincoli e senza deleghe. Un principio fondamentale egli rivendicò, inascoltato, al sindacato. Quello della democrazia come diritto sovrano dei lavoratori. Di esso rese onestamente testimonianza Luciano Lama, ad un anno dalla scomparsa del segretario del Pci, riconoscendo che «Berlinguer aveva ragione su un punto che anch’io ho tardato a capire, ed è quello relativo alla democrazia del sindacato, la possibilità per i lavoratori di compiere le loro scelte liberamente, riducendo il peso di una struttura di direzione dei gruppi dirigenti che poteva diventare una specie di sovrapposizione rispetto alle masse. Aveva ragione - continuava Lama - e talora penso che se avessimo ragionato prima, nel sindacato, sul funzionamento della democrazia, stabilendo regole precise, avremmo contenuto le conseguenze più negative delle divisioni di oggi, e non dovremmo fare i conti con certe inaccettabili lacerazioni dei nostri giorni».
Berlinguer perse la sua battaglia. Ma ci sono sconfitti e sconfitti, vincitori e vincitori. E ci sono vicende che vanno valutate in una prospettiva storica, oltre le miserie (e le amnesie) del tempo presente. Una piccola chiosa finale: pochi giorni dopo i funerali, il partito di Berlinguer, che si chiamava comunista, superò nelle elezioni europee la Dc e divenne il primo partito d’Italia. Nessuno, a sinistra, ha più saputo, né potuto osare tanto.

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